Ancora guai per il Gruppo Volkswagen. Questa volta però non c’entrano le truffe relative alle emissioni. Cosa sta succedendo.
Brutta settimana per Volkswagen quella che si avvia alla conclusione. Se in Italia la Corte d’Appello di Venezia ha appena condannato la Casa costruttrice tedesca a pagare 19 milioni di euro a 63mila nostri concittadini rimasti incagliati, loro malgrado, nello scandalo legato ai motori diesel truccati in modo tale da occultare le reali emissioni nocive, dall’Asia è arrivata una mazzata ulteriore, se non più pesante dal punto di vista morale e della reputazione.
Incredibilmente la voce contro è partita dalla Cina, non esattamente un Paese democratico e dalle grandi tutele per i propri lavoratori ed abitanti.
Va subito detto che non si tratta di parole al vetriolo pronunciate a casaccio. Ci sarebbero infatti delle prove a conferma dell’allarme lanciato da alcuni dipendenti dello stabilimento del marchio tedesco a Urumqi, nello Xinjiang, circa la violazione dei diritti umani.
Ad oggi le forze dell’ordine non avrebbero riscontrato alcun reale atto lesivo, tuttavia alcuni casi sospetti relativi ad ogni reparto della catena produttivi sarebbero stati segnalati e attenzionati.E’ interessante notare come l’osservazione delle infrazioni commesse all’interno della fabbrica sia stata possibile grazie al Supply Chain Due Diligence Act. Che cos’è? Vi starete domandando.
E’ semplicemente un monitoraggio di quanto avviene nelle compagnie che contano più di tremila persone. L’obiettivo è di assicurarsi che vengano rispettate le più elementari norme di rispetto nei confronti di chi lavora: dall’ultimo della catena, alla dirigenza. Attualmente il controlli sono mediamente severi e prevedono l’obbligo di redazione di un report annuale che analizzi nel dettaglio cosa l’azienda ha fatto per il suo dipendente, ma partire dall’anno venturo l’intenzione sarebbe quella di alzare ulteriormente l’asticella.
Dunque, qualora il produttore di Wolfsburg dovesse essere confermato colpevole di suddetti comportamenti, andrebbe a pagare qualcosa? A quanto pare no, sia che si parli di denaro, sia di immagine. E la ragione è semplice.
Da quanto si apprende dal sito dell’Ansa, che a sua volta riprende i dati e le informazioni diffuse dal settimanale teutonico Automobilwoche, il costruttore non sarebbe imputabile direttamente poiché il distaccamento di cui sopra, non sarebbe gestito dalla Germania, ma da una joint-venture con la locale Saiac, di conseguenza decadrebbe pure la validità della regola che abbiamo citato.
Volkswagen pronta quindi a cadere in piedi anche dopo questo scandalo, se vogliamo più scabroso del primo, avendo i tedeschi ben altra e più positiva fama per quanto concerne i diritti della persona? Staremo a vedere. Quello che è certo è che Kerstin Waltenberg, responsabile della compagnia circa questo argomento, ha promesso che i sospetti non verranno ignorati e che al contrario le luci continueranno ad essere puntate.
Sotto questo profilo, anche furbescamente, gli alti vertici si sono mostrati aperti e cooperativi. Nlla fattispecie il direttore generale Oliver Baume ha annunciato che verrà compiuto un audit indipendente proprio relativo alla sede aperta nel 2013, già al centro di lamentele di questo tipo.
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